Le Hamas doit être qualifié d'organisation terroriste, estime le Conseil fédéral

Le Hamas doit être qualifié d'organisation terroriste, estime mercredi le Conseil fédéral. La task force Proche-Orient étudiera les options juridiques pour interdire l'organisation.

Le Conseil fédéral a à nouveau condamné "avec la plus grande fermeté les actes terroristes menés par le Hamas contre des civils en Israël". Il appelle à la libération immédiate des otages de l'organisation et demande un arrêt immédiat des violences.

Le gouvernement suisse rappelle que la population civile doit être protégée et que le droit international humanitaire doit être respecté en tout temps.

L'ONU è gravemente indebolito e "il mondo è fuori controllo"

L'inizio del dibattito generale non è incoraggiante. Il Segretario Generale Guterres esprime profonda preoccupazione.

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Il motto del dibattito generale di quest'anno è duplice: ripristinare la fiducia da un lato e la solidarietà globale dall'altro. Entrambi sembrano buoni, entrambi sono necessari e in entrambi il mondo è lontano dalla rotta.

Il rapporto sullo stato del mondo del Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha tratti quasi apocalittici. Ad esempio, quando descrive un mondo fuori controllo. I governi dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite, ma anche la stessa organizzazione mondiale, non riescono a trovare soluzioni. Le spaccature tra Est e Ovest e tra Nord e Sud si aggraverebbero.

Nel frattempo, non si fa illusioni, ha detto Guterres. Il compromesso era diventato una parolaccia. Ci sono sempre più conflitti, caos e colpi di stato militari. La democrazia è in pericolo in tutto il mondo, le dittature sono in aumento. Per quanto riguarda il clima, la fame e molto altro, lo sviluppo sta andando nella direzione sbagliata.

E anche se, dopo Guterres, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva parla di fede nell'umanità, questo sembra meno descrittivo che evocativo.

Anche il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden sta cercando di diffondere ottimismo. Appena tornato da una visita in Vietnam, sottolinea che i nemici possono diventare partner. Pur avendo parole dure per l'aggressione in corso da parte della Russia contro l'Ucraina, si è impegnato a collaborare con la Cina.

Ma Pechino vuole lo stesso? Il presidente Xi Jinping si tiene lontano dal dibattito generale delle Nazioni Unite. Mentre Biden parla, nella grande sala dell'Assemblea Generale non siedono né il vicepresidente cinese, né un ministro, né l'ambasciatore. Solo due giovani diplomatici cinesi stanno ascoltando. Il simbolismo è importante nella politica mondiale.

Biden si rivolge in particolare ai Paesi del Sud. Con l'impegno di riformare il Consiglio di Sicurezza e le istituzioni finanziarie dell'ONU, risponde alle vecchie richieste dei Paesi emergenti e in via di sviluppo. Ciò è urgentemente necessario, soprattutto perché molti Stati del Sud globale stanno entrando sempre più nell'orbita della Cina.

Il Presidente degli Stati Uniti conclude con forza che le sfide attuali per le Nazioni Unite e per il mondo sono enormi, ma devono essere superate e lo saranno. Molti in sala, tuttavia, si chiederanno per quanto tempo questo presidente, aperto alla cooperazione internazionale, continuerà a governare la superpotenza statunitense.

Richard Gowan, esperto di lunga data delle Nazioni Unite presso il think tank International Crisis Group, è scettico sulla situazione e sul ruolo dell'ONU: funziona bene quando le grandi potenze cooperano, ma al momento le cose non sembrano andare bene da questo punto di vista. È difficile avere fiducia nella capacità di azione dell'ONU quando i Paesi più influenti con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza sono profondamente divisi.

Risultato: all'interno delle Nazioni Unite ci sono soprattutto litigi e l'organizzazione è paralizzata in alcuni settori. Dove ancora funziona, ad esempio negli aiuti umanitari, manca il denaro.

Quasi con sfida, il Segretario Generale Guterres ha dichiarato di non volersi arrendere. Dopo tutto, si tratta di una lotta per la sopravvivenza. L'ONU è stata creata proprio per tempi difficili e pericolosi come quelli attuali. Ma se sia all'altezza di queste sfide è del tutto aperto al momento.

Zeno Zoccatelli

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Quando scatta l'allarme razzo, andiamo nella tromba delle scale, il più lontano possibile dai vetri"

Monique Heymann è una dei quasi 23.000 cittadini svizzeri in Israele ed è impegnata nel Consiglio degli Svizzeri all'estero. In un'intervista a SWI swissinfo.ch, ci racconta come ha vissuto gli ultimi giorni turbolenti e che l'unica cosa che si può fare da lontano è mettersi in contatto e interessarsi.

SWI swissinfo.ch: Da sabato mattina, il gruppo islamista Hamas ha lanciato migliaia di razzi contro Israele. Allo stesso tempo, i combattenti di Hamas da Gaza sono entrati in Israele, massacrando e rapendo civili. Come ha vissuto i giorni trascorsi dall'inizio della guerra?

Monique Heymann: Vivo a Jaffa, la parte araba di Tel Aviv.

Sabato mattina sono stato svegliato alle sei e mezza dalla sveglia a razzo. Non è piacevole svegliarsi così, ma sappiamo già cosa fare in quel momento. Dal momento in cui scatta l'allarme, abbiamo un minuto e mezzo per entrare in un bunker.

Ma nel vecchio edificio in cui viviamo non c'è un rifugio del genere. Entriamo nella tromba delle scale, accovacciandoci il più lontano possibile dal vetro. La tromba delle scale è la parte più stabile di un edificio.

Quando lo scudo Iron Dome intercetta il missile, si sente un boom. Poi si deve aspettare altri dieci minuti. Sabato mattina abbiamo avuto alcuni allarmi, poi altri tre in serata. Da allora la situazione è diventata più tranquilla. Poco fa ho sentito un altro allarme missilistico, ma non direttamente nel nostro quartiere.

SWI: Tuttavia, lei lavora questo lunedì.

M.H: Esattamente. L'azienda internazionale di alta tecnologia in cui lavoro ci sostiene molto in questa situazione. Possiamo lavorare quando possiamo. I miei colleghi in Israele sono per lo più on-off al momento, perché molti di loro devono occuparsi dei bambini allo stesso tempo. Gli amici di un collega sono scomparsi.

Molti dei miei colleghi hanno dovuto arruolarsi nell'esercito come riservisti. Lavorare mi fa bene. Mi distrae, altrimenti non farei altro che scorrere e vedere le immagini dei telegiornali e dei social media.

SWI: Nel conflitto mediorientale, ogni volta che si inasprisce a livello internazionale, molte persone si schierano di riflesso come se fosse una partita di calcio. Cosa risponde a coloro che nei social media sembrano sapere tutto meglio da lontano?

M.H: Non commento queste cose. Personalmente mi infastidisco quando vedo qualcosa.

SWI: Quasi 23.000 persone con cittadinanza svizzera vivono in Israele. Ha sentito parlare di molti che ora stanno cercando un modo per lasciare il paese?

M.H: Non ho sentito nessuno che vive qui e sta pensando di andarsene. Ma il mio collega del Consiglio degli Svizzeri all'estero sembra aver ricevuto molte chiamate. Anche per me tornare indietro non sarebbe un'opzione.

Come la maggior parte degli svizzeri in Israele, ho la doppia cittadinanza. Nel 2014 sono immigrata con l'aiuto di Aliyah, il servizio statale israeliano che sostiene tutti gli ebrei a trasferirsi in Israele e ottenere la cittadinanza. Quindi non penso di tornare in Svizzera, ma mi vedo anche come svizzero, come uno svizzero all'estero. Ecco perché sono coinvolto anche in questa comunità.

SWI: Come valuta il comportamento delle autorità svizzere nei confronti dei cittadini in Israele negli ultimi giorni?

M.H: Sabato sera abbiamo ricevuto un'utile e-mail dall'ambasciata che ci informava su come registrarci sull'app TravelAdmin. Ma ovviamente questo era rivolto ai cittadini svizzeri che vivono qui, non a quelli che sono qui in vacanza.

Per i turisti è stato probabilmente più impegnativo. Ho sentito da un angolo che alcune persone non sapevano come mettersi in contatto con l'ambasciata. Naturalmente, è importante che tutti coloro che vogliono tornare a casa possano essere trasportati in aereo. Lo trovo molto difficile.

Al momento, sembra che non si sappia se ci saranno ancora voli di emergenza dalla Svizzera. Tuttavia, non sono quasi mai coinvolto in questo, ma cerco di essere presente per gli svizzeri che vivono qui se hanno un problema.

SWI: Quali misure politiche dovrebbe adottare ora la Svizzera?

La Svizzera deve assolutamente riconoscere Hamas come organizzazione terroristica. Ho letto sui media che il "Gruppo di amicizia Svizzera-Palestina" sta per terminare. Penso che sia una buona cosa.  

Una mia critica è che fino a lunedì pomeriggio nessuno del Consiglio federale aveva ancora condannato chiaramente l'attacco di Hamas. Forse non è possibile a causa della neutralità, ma lo trovo discutibile.

SWI: Cosa dice ai suoi amici e conoscenti in Svizzera e altrove che stanno cercando modi per aiutare?

M.H: Farsi avanti è l'unica cosa che si può fare. Potete scriverci e pensare a noi. In Israele ci sosteniamo a vicenda dal punto di vista mentale. Ma ricevo anche molti messaggi dalla Svizzera e molte persone si mettono in contatto con i miei genitori che vivono in Svizzera. Anche questo è un bene per i miei genitori. La simpatia è molto grande.

Domanda?

Switzerland as a mediator – the successes and failures

Switzerland has often mediated in international conflicts. In some cases it has made a decisive contribution to making peace, and that is the basis of its reputation for “good offices”. Today, however, Switzerland is only one actor among many.

In 1714 the War of the Spanish Succession ended with an accord signed in the small Swiss town of Baden. This followed two previous treaties concluded in Utrecht and Rastatt. Why did the two parties – France and the Holy Roman Empire – choose this little town as the venue for negotiations? In part because it was located on neutral territory, but also because Baden, a spa town, had the necessary infrastructure to accommodate the more than 300 delegates who spent the entire summer there, enjoying sumptuous banquets between negotiating rounds.

The outcome of the talks was rather modest: the treaty signed on September 7 was essentially limited to a confirmation of the Rastatt peace agreement. But the Swiss government fondly remembered the diplomatic episode as the beginning of a tradition of good offices, even though this would not take on its modern shape until a century-and-a-half after the founding of the federal state in 1848.

In Baden, the Swiss Confederacy served less as a mediator than as the stage for a play directed by the great monarchical powers. It was not until the second half of the 19th century, as international cooperation intensified due to technical developments, that the conditions for a modern policy of providing good offices were met.

Switzerland became the seat of international organisations such as the International Telegraph Union (1865) and the Universal Postal Union (1874). In 1872 an international arbitration court based in Geneva ordered the United Kingdom to pay a fine to the United States for supplying warships to the southern states during the War of Secession.

In the so-called Alabama Claims, Switzerland appeared for the first time in its modern mediator role and helped to find a legal resolution to the conflict between the two states. In the years that followed, Switzerland played a leading role in the debates on international arbitration that led to the Hague Conventions, which proved critical to international relations.

The First World War put an abrupt end to conflict resolution through arbitration. In the interwar period Bern participated in difficult mediation mandates on behalf of the League of Nations, for example in Upper Silesia and the Free City of Danzig.

Important peace conferences were also organised in Switzerland, such as the Locarno Conference (1925), which was intended to defuse the post-war conflicts between the European powers. In Lausanne (1923) and Montreux (1936), agreements were reached on the borders of present-day Turkey and navigation on the Black Sea.

But the Second World War reshuffled the deck. In the immediate post-1945 period the victorious powers distrusted Switzerland because of its economic relations with Nazi Germany. In addition, Switzerland was not a member of the United Nations. Instead, it observed efforts to establish the new international order from the sidelines.

But the UN seat in Geneva, partly due to the work of the new foreign minister, Max Petitpierre, meant that Switzerland was able to become more involved again. The government elected in 1944 strove to combine Swiss neutrality with a more active international presence.

In 1953 almost 100 Swiss army personnel and diplomats were sent as neutral observers to South Korea to monitor the ceasefire on the demarcation line. The deployment, which began in the summer in Panmunjom on the demarcation line at the 38th parallel, was Switzerland’s first involvement in the field of military peacebuilding abroad.

In 1954 Switzerland also hosted the Indochina Conference and in 1955 the first summit meeting between the victorious powers of the Second World War.

But the operation that undoubtedly contributed most to Switzerland’s reputation for good offices was its role as mediator in the final phase of the Algerian War.

At the instigation of the provisional government of the Algerian Republic and with the approval of France, Bern opened channels of communication between the warring parties in 1960. Later it participated in the ceasefire negotiations in Algeria that concluded with the Evian Accords. The Algerian envoys stayed in Switzerland during the negotiations and part of the talks with France took place on Swiss soil.

The success of Evian became a kind of myth relating to Switzerland’s good offices. But this was followed by a series of failures in mediation attempts in Afghanistan, apartheid South Africa and the Falklands War between Britain and Argentina. On the other hand, a summit meeting between US President Ronald Reagan and Soviet leader Mikhail Gorbachev took place in Geneva in 1985.

The Geneva summit was an early sign of a thaw. The end of the Cold War ushered in a new phase in international relations, characterised by an increasingly important role for multilateral organisations in good offices.

At the same time, in the 1990s relations with the European Union became more complicated and an international debate on Switzerland’s role in the Second World War erupted. Switzerland had to reorient itself.

Bern again tried to gain room for manoeuvre through a more active foreign policy, but this time within the framework of multilateral cooperation. Swiss diplomacy then achieved some important successes in the new millennium, such as a 2002 ceasefire agreement in the conflict in the Nuba Mountains in Sudan, signed on the Bürgenstock hill overlooking Lucerne. In 2009, thanks to Swiss mediation, Turkey and Armenia signed the Zurich Protocols aimed at normalising diplomatic relations between the two countries. However, these agreements have had little effect to date. 

Other Swiss peace initiatives in the 2000s – also with mixed results – concerned the conflicts in Nepal, Burundi, Colombia and Cyprus. Swiss efforts in the Israeli-Palestinian conflict also failed to have a lasting effect – instead they provoked Israel.

In 2019, after years of negotiations in Mozambique, a peace agreement was reached between the government and the rebels in Mozambique.

Still, Swiss diplomats’ extensive mediation efforts should not lead to an overestimation of Switzerland’s role in peacebuilding.

Today, international bodies such as the United Nations are more decisive for conflict resolution. Switzerland is one actor among many, with a multilingual and well-prepared diplomatic service and comprehensive know-how. But it often suffers from its international isolation: today, even more than in the past, good offices cannot compensate for solid alliances.

Edited by David Eugster. Translated from German by Catherine Hickley

Il conflitto in Medio Oriente è in corso da più di 70 anni

La regione non è in pace da decenni, da quando Israele è stato fondato dopo la Seconda guerra mondiale. Una cronologia.

Dalla fondazione dello Stato di Israele, più di 70 anni fa, si sono verificati ripetuti conflitti armati con i suoi vicini. La prima guerra del Medio Oriente fu una guerra d'indipendenza per Israele - per i palestinesi, invece, fu l'inizio della "Nakba" (catastrofe), la loro fuga ed espulsione.

29. Novembre 1947: l'Assemblea generale delle Nazioni Unite chiede la suddivisione del territorio mandatario britannico della Palestina in uno Stato ebraico e uno arabo (Risoluzione 181). Gli ebrei sono d'accordo, gli arabi in Palestina e gli Stati arabi rifiutano il piano.

14. Maggio 1948: David Ben Gurion legge la Dichiarazione di indipendenza di Israele a Tel Aviv. Il giorno seguente, i vicini arabi Egitto, Giordania, Libano, Iraq e Siria dichiarano guerra. Nella lotta, il nuovo Stato può espandere il suo territorio e conquistare la parte occidentale di Gerusalemme. Circa 700.000 palestinesi fuggono.

Ottobre 1956: nella crisi di Suez, le truppe israeliane combattono a fianco di Francia e Gran Bretagna per il controllo del Canale di Suez, precedentemente nazionalizzato dall'Egitto.

Giugno 1967: nella Guerra dei Sei Giorni, Israele conquista la Striscia di Gaza, la Penisola del Sinai, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le Alture del Golan.

Ottobre 1973: un'alleanza di Stati arabi guidata da Egitto e Siria invade Israele durante lo Yom Kippur, la massima festività ebraica. Solo con gravi perdite Israele riesce a respingere l'attacco.

Marzo 1979: il capo del governo israeliano Menachem Begin e il presidente egiziano Anwar al-Sadat concludono un trattato di pace con la mediazione degli Stati Uniti.

Giugno 1982: inizia l'operazione "Pace per la Galilea". Israele attacca le postazioni dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) in Libano e invade il Paese vicino.

Settembre 1982: i miliziani cristiani libanesi compiono il massacro di Sabra e Shatila in un campo profughi palestinese, alla vista dei posti di blocco israeliani. Il ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon è accusato di complicità politica.

Dicembre 1987: scoppia la prima rivolta palestinese ("Intifada").

Settembre 1993: il primo ministro israeliano Izchak Rabin e il leader dell'OLP Yasser Arafat firmano gli accordi di pace di Oslo.

4 novembre 1995: Rabin viene ucciso da un fanatico ebreo dopo una manifestazione per la pace a Tel Aviv.

Settembre 2000: dopo una visita dell'allora leader dell'opposizione israeliana Ariel Sharon al Monte del Tempio di Gerusalemme, scoppia la seconda Intifada.

2002: Israele inizia la costruzione di una barriera lunga 750 chilometri intorno alla Cisgiordania. Recinzioni e muri corrono in parte sul territorio palestinese.

Agosto 2005: contro la resistenza dei coloni, Israele evacua tutti gli insediamenti nella Striscia di Gaza e ritira le sue truppe dal territorio palestinese sul Mediterraneo.

Luglio 2006: Israele e la milizia libanese Hezbollah ingaggiano una guerra di un mese.

Giugno 2007: l'islamico radicale Hamas espelle Fatah di Mahmoud Abbas dalla Striscia di Gaza in una sanguinosa lotta di potere tra i palestinesi.

Dal 2008/2009 all'agosto 2014: l'esercito israeliano e Hamas si affrontano in tre conflitti nella Striscia di Gaza. Poco prima della guerra del 2014, fallisce l'ultimo tentativo di Israele e della leadership palestinese di Abbas di concordare una pace al tavolo dei negoziati.

Dicembre 2017: il presidente degli Stati Uniti Donald Trump annuncia il trasferimento dell'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. La decisione ha suscitato aspre critiche a livello internazionale.

Primavera 2018: presso la barriera di confine tra Israele e la Striscia di Gaza iniziano le manifestazioni di una settimana dei palestinesi per il diritto al ritorno nel territorio dell'attuale Israele. Più di 100 manifestanti vengono uccisi dall'esercito. Gli Stati Uniti aprono l'ambasciata a Gerusalemme.

Gennaio 2020: Trump e il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu presentano un piano di pace per il Medio Oriente. I palestinesi vedono violato il diritto internazionale e lo rifiutano.

Maggio 2021: scoppiano pesanti scontri tra le forze di sicurezza israeliane e i palestinesi a Gerusalemme. Dalla Striscia di Gaza vengono lanciati numerosi razzi contro Israele, che risponde con massicci attacchi aerei. I combattimenti continuano da 11 giorni, con almeno 250 morti a Gaza e 13 in Israele.

Agosto 2022: un alto comandante delle Brigate Al-Aksa viene ucciso in un attacco aereo israeliano. Nei tre giorni di combattimenti che seguono, vengono uccise almeno 44 persone, tra cui 15 bambini.

Gennaio 2023:  L'organizzazione della Jihad islamica nei Territori palestinesi lancia due razzi contro Israele dopo che le truppe israeliane hanno attaccato un campo profughi, uccidendo sette palestinesi armati e due civili. I razzi provocano allarme nelle comunità israeliane vicine al confine, ma non fanno vittime. Israele risponde con attacchi aerei sulla Striscia di Gaza.

7 ottobre 2023:  Hamas lancia il più grande attacco a Israele degli ultimi anni con un'offensiva a sorpresa. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu parla di guerra. L'esercito israeliano effettua attacchi aerei sulla Striscia di Gaza. Secondo i media, almeno 40 persone sono state uccise in Israele nel giro di poche ore dagli scontri. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, ci sono almeno 160 morti nei territori palestinesi. Centinaia di persone sono rimaste ferite.

Micheline Calmy-Rey: "Une solution à deux Etats, c'est une utopie"

Pratiquement 20 ans après la signature de l'initiative de Genève, qui proposait une solution à deux Etats pour résoudre le conflit israélo-palestinien, peut-on encore espérer la paix? Pour Micheline Calmy-Rey, ancienne cheffe du Département fédéral des affaires étrangères, "il ne faut jamais désespérer", mais "la solution à deux Etats est une utopie".

En 2003, l'initiative de Genève proposait des solutions concrètes à tous les problèmes qui pouvaient se poser pour la mise en œuvre d'une solution à deux Etats, a expliqué dans La Matinale de mardi Micheline Calmy-Rey, conseillère fédérale alors en exercice. "Aujourd'hui, la solution à deux Etats, on en entend toujours parler, mais on voit que sur le terrain, ce n'est pas possible d'en faire une réalité."

"Il n'y a qu'à regarder une carte pour voir que le territoire palestinien, c'est un Emmental. Il n'y a pas de quoi en faire un Etat. La solution à deux Etats aujourd'hui, c'est une utopie. Il va falloir travailler d'autres pistes, comme par exemple une Confédération d'un seul Etat, avec les mêmes droits pour tout le monde et ne pas tomber dans le dérapage d'un Etat apartheid", a relevé Micheline Calmy-Rey.

"On a géré la situation, pensant que le statu quo allait finir par marcher, mais penser que les choses vont s'arranger d'elles-mêmes n'est pas une option. On a la leçon de cette négligence portée au conflit israélo-palestinien. Cela a provoqué un certain radicalisme d'un côté comme de l'autre et il y a eu tout à coup cette explosion de violence."

L'ancienne présidente de la Confédération condamne les attaques du Hamas sur la population civile qui sont "inadmissibles". "Mais je constate que les opérations militaires touchent les populations civiles aussi bien du côté israélien que du côté palestinien et la situation humanitaire dans la bande de Gaza qui était déjà difficile va encore empirer."

"On ne sortira pas de cette spirale de violence avec la répression et avec des attaques terroristes. On en sortira que par le dialogue."

Mais il va falloir trouver d'autres voies et véritablement s'engager, selon elle. "Ces attaques palestiniennes avaient notamment pour objectif d'empêcher la normalisation des relations entre l'Arabie saoudite et Israël qui laissait la question palestinienne un peu à la marge. D'ailleurs, la question palestinienne est restée à la marge des agendas européens et américains ces dernières années", a encore déclaré Micheline Calmy-Rey.

A présent, il faut que les différentes parties se parlent et la Suisse a un rôle à jouer. "La Suisse a toujours parlé au Hamas qui ne figure pas sur la liste des Nations unies comme organisation terroriste, comme Al-Qaïda et le groupe Etat islamique. Si vous voulez faire un accord, si vous voulez trouver une solution à la situation actuelle, ce n'est pas par le militaire, c'est par le dialogue", a encore répété l'ancienne conseillère fédérale. "Il faut que les parties impliquées prennent part aux discussions. Ce qui s'est passé entre l'Arabie saoudite et Israël, c'est que les Palestiniens ont été laissés en marge. Vouloir faire la paix sans eux, c'est s'exposer à des échecs."

La Suisse est un pays qui peut amener quelque chose dans la mesure où il peut prôner le dialogue. Il ne faut jamais perdre espoir que le dialogue va pouvoir s'instaurer, a conclu Micheline Calmy-Rey.

>> L'initiative de Genève, un projet de paix qui promeut la création d'un Etat palestinien aux côtés d'Israël:

Paragonatevi con il resto della Svizzera

Nato, neutralità, esercito: come la Svizzera pensa alla sicurezza

Alla luce della guerra in Ucraina, un numero maggiore di svizzeri può immaginare un riavvicinamento alla NATO. Nonostante le guerre e le crisi, la visione del futuro è più ottimista che in passato. I punti più importanti dello studio sulla sicurezza dell'ETH.

Claire Micallef

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La guerra in Ucraina spinge la Svizzera ad avvicinarsi alla Nato: la guerra di aggressione russa contro l'Ucraina aumenta la disponibilità degli svizzeri a cooperare. Questa è la conclusione dello studio di quest'anno "Sicurezza 2023" realizzato da gennaio, dall'Accademia militare (Milak) e dal Centro per gli studi sulla sicurezza (CSS) del Politecnico di Zurigo. Pertanto, la maggioranza del 55% degli intervistati è favorevole a un riavvicinamento alla NATO. Si tratta di dieci punti percentuali in più rispetto al gennaio 2021. Una sottile maggioranza ritiene che la neutralità lo consenta.

Questo è tipico non appena si verifica una crisi nelle immediate vicinanze della Svizzera, afferma il co-autore Tibor Szvircsev Tresch di Milak: "Ha a che fare con il fatto che la gente ha perso un po' di fiducia nella propria capacità di difendersi, che è ovviamente legata anche alla neutralità". Tuttavia, solo un terzo degli intervistati vuole che la Svizzera entri nella NATO.

La neutralità è vista in modo più critico, ma rimane ampiamente supportata:  Con il 91%, la neutralità è stata sostenuta da sei punti percentuali in meno rispetto al sondaggio dell'anno precedente. Una stretta maggioranza ha continuato a sostenere la neutralità differenziale, secondo la quale la Svizzera prende una posizione chiara nei conflitti politici ma rimane neutrale in quelli militari. La necessità di un chiaro riferimento posizionale anche in caso di guerre, tuttavia, è cresciuta dal 18% del gennaio 2021 all'attuale 27% dei partecipanti allo studio. La valutazione della neutralità come fattore di protezione è scesa significativamente dal 69 al 55% rispetto all'anno precedente.

Le prospettive future sono un po' meno rosee: a gennaio l'81% degli elettori intervistati prevedeva un futuro positivo per la Svizzera. Si tratta di cinque punti percentuali in meno rispetto al gennaio 2022, prima dello scoppio della guerra. La fiducia nel mondo è scesa di sette punti percentuali rispetto all'anno precedente. Solo il 24% si è detto ancora ottimista sul futuro globale.

Gli svizzeri si sentono meglio rispetto agli anni precedenti:  È interessante notare, tuttavia, che gli svizzeri si sentono meglio oggi rispetto agli anni precedenti. In particolare negli anni dal 2014 al 2016, i rapporti sulla sicurezza hanno mostrato alcune cose sorprendenti dal punto di vista odierno. Mentre il 94% degli intervistati di recente si è sentito generalmente sicuro, la cifra per il 2016 è stata complessivamente dell'86%. Anche guardare al futuro oggi fa meno paura di un tempo: nel 2016 il 75% era ottimista, nell'ultimo sondaggio era l'81%. Ciò può sembrare sorprendente se si considera che una guerra si sta svolgendo a circa 2000 chilometri di distanza dalla Svizzera e che una pandemia con conseguenze di vasta portata ha recentemente scosso la Svizzera e l'Europa. In confronto, negli anni dal 2014 al 2017, l'Europa ha sofferto, tra le altre cose, della crisi dell'euro e dei rifugiati.

Anche guardando ancora più indietro nel tempo, il confronto con i giorni nostri è sorprendente: la sensazione di essere vivi oggi è ancora migliore di quella che si provava dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre. Settembre 2001. Nel Rapporto sulla sicurezza del 2002, l'86% degli intervistati ha dichiarato di sentirsi "molto sicuro" o "piuttosto sicuro".

Pascale Baeriswyl: "La Svizzera sta cercando di difendere il diritto umanitario internazionale e lo Stato di diritto"

Dall'inizio dell'anno la Svizzera è membro temporaneo del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Parlando con La Matinale lo scorso aprile, Pascale Baeriswyl, suo rappresentante a New York, ha parlato di questo ruolo in un mondo in cui "conflitti e crisi sono in aumento".

Combattimenti in Sudan, guerra in Ucraina, tensioni in Medio Oriente... Negli ultimi anni, il mondo ha assistito a un susseguirsi di violenze e crisi. Ma cosa può fare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per impedirlo?

In risposta a questa domanda, il diplomatico basilese di origine friburghese ammette fin dall'inizio che il Consiglio di Sicurezza "non può fare la pace da solo", ma che rimane "un attore estremamente importante" sulla scena mondiale.

Secondo Pascale Baeriswyl, il Consiglio ha prodotto risultati, con risoluzioni approvate di frequente, anche se è ancora necessario impegnarsi per evitare che queste situazioni si verifichino in primo luogo.

Per un Paese come il nostro (...) è importante che questo mondo, che queste regole siano mantenute, perché per noi è davvero una questione esistenziale.

"Con il Consiglio di sicurezza ci sono aspetti totalmente positivi, ma direi che sulle grandi questioni globali possiamo vedere che le crisi e i conflitti sono in aumento", ha deplorato.

Per la donna, che ha iniziato la sua carriera presso il Dipartimento federale degli Affari esteri sotto la guida di Joseph Deiss, la Svizzera ha anche un posto all'interno dell'istituzione ONU. Un luogo che consentirebbe al Paese di difendere principi forti che servono ai suoi interessi.

"Nel Consiglio di Sicurezza, la Svizzera cerca di difendere il diritto umanitario internazionale e lo Stato di diritto. Per un Paese di medie dimensioni come il nostro, con un'economia orientata all'esportazione, è importante che questo mondo venga mantenuto, che queste regole vengano rispettate. Perché per noi è davvero una questione esistenziale", spiega.

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Durante le riunioni del Consiglio di Sicurezza, l'ambasciatore svizzero a New York deve anche gestire la presenza di un vicino che potrebbe essere considerato un fastidio, il rappresentante della Federazione Russa.

Interrogata in merito, Pascale Baeriswyl spiega che continua a mantenere un rapporto basato sul rispetto, che è essenziale nella diplomazia. "Credo che si debba distinguere tra persone e posizioni nazionali. In termini di rapporti con le persone, è importante mantenere un dialogo reale, avere un rapporto rispettoso, ed è quello che cerco di fare. Non direi che abbiamo un rapporto caloroso, ma rispettoso, sì", spiega.

In Europa siamo molto più vicini al conflitto ucraino che a New York. Qui, gestiamo tutti i conflitti del mondo

Quanto alla posizione sulla neutralità, tanto discussa in Svizzera e in Europa, secondo il diplomatico non è spesso all'ordine del giorno delle sessioni di New York.

"La neutralità non è un tema che discutiamo quotidianamente in Consiglio di Sicurezza, perché fa già parte delle nostre posizioni sul diritto pubblico internazionale, che sono ben note e rispettate. Anche per i russi non si tratta di una novità, perché abbiamo sempre condannato le violazioni del diritto umanitario internazionale", ha dichiarato.

Perché allora l'Europa sembra meno comprensiva su questo punto, soprattutto quando si rifiuta di riesportare attrezzature militari? Per l'ambasciatore, la causa è senza dubbio principalmente geografica. "In Europa siamo molto più vicini al conflitto ucraino che a New York. Qui gestiamo tutti i conflitti del mondo", aggiunge.

Pur ammettendo che l'aggressione russa è "la più massiccia violazione della Carta delle Nazioni Unite", Pascale Baeriswyl ribadisce che la neutralità della Svizzera non è al centro dell'attenzione della comunità internazionale su questo tema, con i Paesi che cercano soprattutto di sapere come gestire queste tensioni geopolitiche.

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